Attilio Momigliano (1984)

Attilio Momigliano, «La Rassegna della letteratura italiana», a. 89°, s. VIII, n. 2-3, Firenze, maggio-dicembre 1985, pp. 289-298; poi in W. Binni, Poetica, critica e storia letteraria, e altri scritti di metodologia, cit. Discorso di apertura del convegno dedicato a Momigliano nel centenario della nascita, Firenze, 10-11 febbraio 1984.

ATTILIO MOMIGLIANO

Mi è stato affidato dagli amici e colleghi piú legati al ricordo e alla lezione di Momigliano l’incarico onorevole di introdurre, con un breve discorso che insieme è in realtà intessuto di vivi ricordi personali e generazionali e dunque è anche la prima delle testimonianze che saranno qui rese dai suoi allievi, questo convegno in occasione della sua nascita, convegno che si è voluto assegnare interamente (quanto alle vere e proprie relazioni) a studiosi di altre generazioni come verifica e valutazione piú obbiettiva, piú distanziata (rispetto a quella che poteva essere la nostra), dell’opera di quel grande critico.

Incarico certo legato al fatto che, fra i suoi allievi, io mi sono trovato a insegnare, nella Facoltà di Lettere di Firenze dal ’58 al ’64, la materia di cui egli fu maestro, ed anche al fatto che io, nel ’60, proprio in quest’Aula Magna, volli, a otto anni dalla sua morte, commemorarlo, riportandolo cosí piú direttamente alla memoria storica della sua Facoltà e di tutta l’Università di Firenze.

Dopo una commemorazione nella primavera dell’anno scorso (in coincidenza piú esatta con il centenario) promossa dalla comunità israelitica fiorentina e tenuta dal suo allievo e fedelissimo amico Carmelo Cappuccio e da Nino Libertini, con il presente convegno le facoltà umanistiche fiorentine e, fra gli altri enti patrocinatori, la regione Toscana hanno ben giustamente voluto riproporre la figura altissima di questo maestro della critica che proprio in Toscana, prima per un decennio a Pisa dal 1925 e poi a Firenze dal ’34 con l’interruzione del suo insegnamento dal ’38 al ’44 a causa delle persecuzioni razziali (e fra Toscana e Umbria, fra San Sepolcro, Città di Castello, Anghiari, Perugia nel periodo dell’occupazione tedesca e subito dopo la liberazione), svolse la parte piú cospicua e attiva della sua vita e della sua opera di professore universitario e di critico.

In questo convegno, sia pure nella prospettiva della ristrettezza del tempo a disposizione, le relazioni esamineranno opere e periodi, scelti appositamente entro l’ingente massa di lavoro critico sviluppato dal Momigliano: Dante (Giorgio Petrocchi), Pulci e Ariosto (Giovanni Ponte), Seicento (Franco Croce), Settecento (Gennaro Savarese), Gusto neoclassico e poesia neoclassica (Roberto Cardini): scelta sintomatica, questa, di un saggio particolare che certo rappresenta uno dei prodotti piú maturi ed elaborati del Momigliano e dimostra le sue originali capacità di scansione storiografica fra poesia, gusto figurativo e costume estetico-storico e tanto piú, se fosse necessario, particolarmente si oppone all’etichetta del critico solo impressionista o solo psicologico), Porta (Guido Bezzola): altra prova, la monografia portiana, non solo della sua attenzione nuova allora e rinnovante alla poesia dialettale, ma anche delle sue possibilità, pur entro stimoli della scuola storica, di delineare quadri e ambientazioni storiche, ma tutti nuovamente intesi a rafforzare intorno al poeta studiato l’oggetto precipuo della sua ricerca e vocazione: la centralità della poesia), Manzoni (Raimondi), Secondo Ottocento e Novecento (Enrico Ghidetti; mentre Alvaro Biondi studierà lo stile, la scrittura di Momigliano e Mario Scotti appositamente tratterà (riconvergendo sulla figura generale del critico tutt’altro che inesperto di storia e di metodo) della consapevolezza metodologica e del senso storico in Attilio Momigliano. Né, mentre Vittore Branca, mio coetaneo e compagno di corso, nella nostra discepolanza pisana, trarrà le conclusioni del Convegno, mancherà una serie di testimonianze di alcuni allievi della sua scuola pisana e fiorentina (Raffaele Spongano, Claudio Varese, Piero Bigongiari, Guido Di Pino, Fausto Montanari, nell’ordine in cui essi parleranno), testimonianze alle quali, come ho già detto, in parte appartiene questa mia stessa introduzione.

Del resto mi è sembrato utile (proprio ad apertura di un convegno di studio a lui dedicato) riproporre la viva presenza dell’uomo e del maestro universitario nel loro interno essenziale rapporto con la sua critica, prima radice e alimento personale delle sue stesse qualità critiche, ricordare la sua personalità autentica, schietta, sobria e persino schiva, ma insieme intimamente calda di affetti, e d’altronde complessa e ricca di motivi e sfumature, presa fra desiderio e possibilità di serenità e un’amarezza quasi di origine biblica ed israelitica (Giobbe, l’Ecclesiaste, Geremia che egli esplicitamente ricorda come esemplari ebrei di quanto egli sentiva in sé di pessimistico, elemento da lui raccordato anche a Leopardi, dichiarandosi a volte «forse» piú leopardiano che manzoniano), la sua stessa finissima ironia e autoironia, a volte sino configurata in forme di delicata scherzosità, specie nel registro scrittorio delle lettere agli amici piú cari e congeniali. Natura e personalità che si rivelavano in ogni suo aspetto, nella sua stessa struttura fisica, minuta, gracile, finissima e delicata, nella sua andatura mai affrettata e agitata, ma naturale, semplice e insieme assorta e pensosa («il mesto Attilio» lo chiamava, con accento scherzoso-affettuoso, Luigi Russo). Cosí egli appariva a noi, suoi allievi pisani (nel periodo tutto sommato costantemente piú sereno della sua maturità), quando lo incontravamo sui Lungarni o ne ascoltavamo le lezioni, dette quasi con un riserbo eccessivo, con quella sua mano destra che copriva una parte del volto, cosí antiretorico e senza nessun accenno di gesto, tutto concentrato nelle sue cosí decise e nitide osservazioni che seguivano ad una parafrasi esplicativa e introduttiva, sin nel linguaggio, al testo e ad una lettura di questo, lettura di cui tutti quanti i suoi allievi (catanesi, pisani o fiorentini che fossero) non potevano certo non avvertire come essa, nella sua lentezza monocorde e smorzata, facesse tanto piú sottilmente filtrare e vibrare la voce della poesia, grande o piú gracile che fosse, con un suo sottile rilievo graduato di tono smorzato e pure inconfondibile. Chi, come me, seguí, al mio arrivo alla Normale e all’Università di Pisa, i suoi corsi del ’31 e ’32 (uno sull’Alfieri, l’altro sui lirici del ’700: preparazione alla parte della Storia della letteratura che veniva scrivendo in quegli anni) non potrà certo non avere ancora nella memoria uditiva (ed interiore) non solo, ad esempio, il profondo suono e rilievo della battuta di Cecri nel finale della Mirra (la tragedia già prima da lui cosí genialmente commentata e interpretata nella vera grandezza che egli seppe scoprirne) «Né piú abbracciarla io mai?» (in un corso in cui assistevamo al delinearsi di una nuova interpretazione della complessità umana e morale della poesia alfieriana e, accanto alla Mirra e al Saul, al profilarsi delle acquisizioni nuovissime dell’Agamennone o dell’eroica-dolente figura di Ottavia), ma anche il suono melodioso e patetico di certi versi del Rolli, del Metastasio (i lirici che giustamente piú apprezzava nella zona arcadica) e magari dell’esile Vittorelli, quasi in un ideale indimenticabile susseguirsi nitido e già criticamente rivelativo, di cui poi il discorso vero e proprio giustificava continuità e scansione: «La neve è alla montagna / l’inverno si avvicina / Bellissima Nerina, che mai sarà di me?»... «E tu chi sa se mai ti sovverrai di me?»... / «Guarda che bianca luna, guarda che notte azzurra / un’aura non sussurra / non tremola uno stel».

Era proprio una lettura della poesia da parte di un critico che in qualche modo poi egli propose (ora si può pensare a recenti esplicite proposte sul valore della lettura orale criticamente orientata e orientante) in confronto di quella di attori e di quella di dicitori di professione, dei quali ultimi affermava, in un articolo del ’34: «veramente pochi son cosí lontani dalla poesia come quasi tutti i dicitori di professione».

Mentre le qualità dell’uomo e del maestro ci apparivano, in ogni contatto con lui, nella sua purezza, nella sua assoluta diversità da ogni boria e prepotenza accademica, nella sua sicura lealtà e sincerità, nella sua bontà e mitezza suprema, ma sottesa da una sua calma, sicura energia e decisione, e cosí consapevole della rarità e del valore di tali, solo apparentemente, «piccole virtú» in un mondo prevalentemente cosí diverso e da lui come tale ben conosciuto, se nella monografia sul Manzoni poteva affermare: «la maggior parte degli uomini passa su questa terra come se ci dovesse rimanere in eterno, crudele e cieca anche quando la coltura della mente la dovrebbe illuminare. Pochi sono capaci di una umiltà semplice, pronta a tutte le prove, sicura che le sconfitte delle anime pure sono apparenti ed effimere». E quella nostra conoscenza umana e morale di lui consuonava perfettamente con la conoscenza del critico di cui leggevamo gli scritti e del maestro universitario quale soprattutto lo sperimentavamo nelle lezioni e, ancor piú, nei seminari (il cui uso del resto allora non era molto frequente), nei quali la sua costante, mai distratta attenzione alle nostre relazioni si concludeva e si esprimeva in giudizi brevi, pacati, e insieme sintetici, esaurienti, sicuri, a volte anche severi, ma che tanto piú noi consideravamo e apprezzavamo nella loro schiettezza e giustezza, come altamente autorevoli e decisivi, esenti com’erano da ogni imposizione autoritaria e da ogni blanda accettazione non convinta, sicché noi ci sentivamo nei suoi confronti da lui arricchiti e insieme liberi, e mai sopraffatti dall’imposizione delle sue idee, come avveniva specie nelle nostre spesso diverse valutazioni della letteratura contemporanea.

Sicché, per quanto riguarda il periodo pisano di cui io ed altri possiamo dare piú diretta testimonianza, se ha un suo fondamento quello che Cecchi chiamava «il culto di Momigliano», esso in realtà era piuttosto un insieme di profondo «affetto e rispetto»: sono le parole che Capitini, che era uno – l’altro era Varese – dei suoi assistenti volontari all’inizio della sua discepolanza pisana, adoperò in una sua tarda lettera a ricordare l’atteggiamento di una cara compagna alle lezioni di Momigliano.

Il fatto è che i suoi scolari (parlo di tutti, ma certo in particolare di quelli pisani che piú ebbero cosí costante e raccolto affiatamento con Momigliano: né molti di questi, italianisti o meno, erano giovani chiusi solo nella pura letteratura né privi di forti interessi storici, culturali, etico-politici; basti ricordare, esclusi ovviamente i presenti ben attivi nel convegno, i nomi di Capitini, Baglietto, Ragghianti, Cantimori, Dessí) trovavano una eccezionale integrità di qualità umane e di autentico valore critico, una prospettiva che insieme risaliva all’atto critico, sostenuta da quella sostanza morale ed umana, ma anche da una sottesa, anche se non apertamente esibita, scrupolosità di preparazione (ne erano fra l’altro segno sicuro la sua forte attenzione alla storia della critica non solo riassunta magistralmente all’inizio dei suoi corsi, ma trattata in interi seminari: come uno molto capillare sui commentatori cinquecenteschi dell’Orlando Furioso). Sicché per alcuni di noi lo stesso arrivo di Russo nel ’34, al nostro quarto anno (è il caso, fra i presenti, mio e di Branca), se indubbiamente ci portò un diverso insegnamento (per me e per altri davvero fondamentale), non fu in realtà cosí traumatico, come si potrebbe pensare, né ci trovò impreparati ai suoi caratteri precipui, perché, ripeto, lo stesso insegnamento di Momigliano, oltre alla sua profonda lezione di critica e di senso profondo della poesia, ci aveva pur provveduti, proprio nel campo della letteratura italiana, di basi e di disposizioni di senso storico e di interesse metodologico.

Né ciò che noi (e certo, ripeto, quanti lo hanno avuto maestro nelle varie università in cui insegnò) sentivamo nella sua personalità, il coraggio pacato dell’uomo e del critico («coraggiosissimo sul lavoro» lo disse Emilio Cecchi), mancò di rivelarsi, a livello umano, quando, dopo i primi anni fiorentini, iniziati con una ancora piú intensa alacrità di lavoro e arricchiti di amicizie e di discepolanze feconde, ma presto oscurati dalle avvisaglie delle persecuzioni razziali, queste (fra le piú infami offese inflitte dal fascismo alla nostra tradizione civile) si precisarono nell’espulsione degli israeliti da ogni impiego pubblico e quindi di Momigliano dalla sua cattedra universitaria, dalla sua allora prestigiosa cattedra di critico militante nella pagina del «Corriere della Sera», ed egli fu costretto a scrivere sotto falso nome o in forma anonima, reso impotente a difendersi da attacchi che purtroppo in quel periodo non gli mancarono (mentre molti studiosi finivano per ricorrere, citando sue frasi e scritti, a misere perifrasi come questa: «come scrive un fine critico» o simili!), a preoccuparsi per la sorte della moglie amatissima e della sua fragile salute, a causa anche della quale finí per dover rifiutare una collocazione universitaria all’estero, e poi, quando il nostro Paese fu occupato dai nazisti, fu costretto a nascondersi insieme alla moglie nella zona fra Toscana e Umbria (a Città di Castello, ad Anchiari, a San Sepolcro), continuamente esposto alla cattura e al campo di sterminio.

Allora meglio si fece luce il suo calmo coraggio, la sua strenua passione di lavoro, se persino nei sotterranei dell’ospedale di San Sepolcro (dove era stato accolto per una di quelle generose sfide con cui i migliori italiani riscattarono la vergogna delle persecuzioni razziali fasciste e dell’occupazione tedesca) egli seguitò, come e quando gli era possibile, pur a scrivere, portando avanti i suoi commenti alla Gerusalemme Liberata e alla Divina Commedia, che poi piú assiduamente riprese a Perugia dopo la liberazione dell’Umbria in un breve periodo in cui fu ospitato nella casa di un suo ex allievo pisano (Bruno Enei, già eroico comandante partigiano) e godette della vicinanza di altri suoi allievi come Capitini, mia moglie e me.

E mentre a Perugia riebbe, per merito di Capitini, che ne era Rettore, un suo insegnamento pubblico all’Università per Stranieri (ove tenne ammirate letture dantesche e pascoliane), chi vi parla non può non rievocare una immagine inedita e ferma ormai solo nella sua memoria e in quella della sua compagna (da tempo scomparsi Capitini ed Enei): quella assai significativa, in varie occasioni, di Momigliano che scriveva il suo commento dantesco, mentre noi ed altri tenevamo compagnia a sua moglie, ed egli veniva frequentemente chiamato soprattutto dalla moglie malata per varie ragioni, interrompeva il suo lavoro, rispondeva con pazienza e semplice calma alle varie richieste, per poi tornare a riprendere subito a scrivere. Immagine per me indimenticabile a riprova della calma forza del suo carattere e del suo nitido, complesso sistema mentale, della sua passione per la poesia e per la critica che proseguivano in lui, malgrado le interruzioni, a funzionare perfettamente con la continuità e resistenza di un filo serico sottile e infrangibile.

Poi, qui a Firenze, fra fine ’44 e inizio ’45, avvenne la ripresa dell’insegnamento e quella piú intensa del lavoro critico culminato soprattutto nel completamento dei suoi grandi commenti fino a quello dei Promessi Sposi (veri e propri capolavori della sua estrema maturità) e la sua rinnovata attività fu riconosciuta da crescenti onori nazionali e da incarichi editoriali in cui egli pur dimostrò le sue qualità di organizzatore di cultura, anche se presto riapparve nella sua vita il Leitmotiv predominante della sventura che si acuí e precisò nella crescente malattia e morte della moglie, da lui profondamente amata, e poi nel morbo crudele che invase e torturò a lungo il suo organismo delicato e sensibile. E proprio allora (lo sanno piú direttamente e per costante esperienza quanti gli furono piú vicini qui a Firenze: soprattutto gli ex allievi Cappuccio e Di Pino, cosí affettuosamente e attivamente attenti a lui durante la sua malattia) egli dette prova sicura del suo pacato, ma virile coraggio, del resistente attaccamento al lavoro e alla poesia e persino del suo humour e della sua autoironia sottile e consapevole: in una delle sue tarde lettere a me, nell’autunno del ’51, a proposito del suo volume Ultimi studi che doveva uscire e sarebbe uscito postumo in una collana da me diretta presso «La Nuova Italia», mi scriveva circa il titolo: «Penserei a questo titolo: Nuovi studi e Nuovi saggi. Un altro – Ultimi studi – sarebbe una civetteria da morituro e potrebbe prestarsi al dileggio dei severi e attirare i sospiri dei sentimentali: e tuttavia a me non dispiacerebbe». Sembrava quasi che quel titolo, con il significato di ultimo commiato, lo affascinasse e lo turbasse. Piú volte egli tornò a modificarlo, a disdirlo, a confermare (e con tal titolo io lo pubblicai nel ’53), come se esitasse a scoprire il suo presentimento sempre piú forte, malgrado le dubbie pietose menzogne del medico, che egli viceversa redarguí appunto per tali menzogne, proprio nei giorni precedenti la morte, perché, egli disse, era ben un uomo, non un ragazzo e aveva diritto di prepararsi consapevolmente alla morte: a questa, egli non credente, si preparò in un modo assai significativo: a quanto mi raccontarono gli amici che piú gli furono allora vicini, egli passò le ultime giornate coscienti a rievocar con loro non la sua opera, i suoi successi, e neppure le sue sventure, ma i paesaggi, i luoghi piú cari e le persone piú amate, in un suggello ben significativo di una vita e di una personalità cosí schietta, cosí intima, cosí in se stessa profondamente poetica e disposta alla interpretazione della poesia.

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A passare dai vivi ricordi e dal rilievo della personalità di Momigliano e della sua figura di Maestro universitario (quale io ed altri lo abbiamo direttamente conosciuto) ad una brevissima indicazione delle sue prospettive e dei modi della sua operazione critica (demandata, come ho detto, alle vere e proprie relazioni di questo convegno in un approfondito e piú rinnovato scandaglio di tutto ciò entro l’esame di scrittori e zone della sua interpretazione), basterà qui ricordare alcune delle sue affermazioni indicative. Cosí Momigliano, in due frasi significative per lui (e anche per noi che parliamo di lui), ci indica il rapporto fra personalità, biografia, poesia e critica di poesia, mostrandoci insieme un aspetto della sua personale poetica e un aspetto centrale delle sue prospettive metodico-operative che, se non si stringono in una vera e propria sistematica formulazione teorico-metodica generale, creano una zona screziata e fermentante, ma convergente di asserzioni e problemi ben caratteristici della sua critica disponibilità orientata. L’affermazione secondo cui «l’esame della fantasia di un poeta non basta a svelare il segreto della sua arte; tutto il suo spirito vi confluisce e la fantasia lo regola e l’illumina» e quella (nell’unica sua vera estesa e impegnativa discussione metodologica con Pellizzari e Cesareo – nella «Rassegna» del ’16) piú direttamente rivolta a definire la cultura necessaria al critico per comprendere e interpretare i poeti che studia: certo, egli affermava, necessaria una vasta conoscenza dei poeti di ogni tempo, un’esperienza di pensiero e di gusto, una «preparazione storica generale e particolare», ma condizione indispensabile per il critico, egli aggiungeva con forza, «è soprattutto quella di avere lui stesso vissuto una vita ricca di preoccupazioni sentimentali, mobile e pensosa. Perché anche questo ultimo elemento è necessario, e anche questo è cultura».

Mentre, d’altra parte, nella premessa del ’48 all’ultima edizione della monografia manzoniana egli rivelava insieme la sua mèta personale di critico (scrittore e uomo) e la sua mèta, a suo avviso, della grande poesia o di quella che piú gli era congeniale. Se infatti egli vede che la fisionomia del suo libro «è nata dal piú reverente e dal piú caldo dei miei affetti di critico», egli cosí chiariva la ragione massima della revisione ultima della sua monografia: «Ci son voluti trent’anni perché io mi accorgessi che questo lavoro doveva essere, in alcuni tratti e pagine, meglio intonato alla sobrietà e alla precisione manzoniana. L’ammirazione per il Manzoni mi aveva fatto piú d’una volta accettare le espressioni enfatiche e i giudizi mal determinati che l’esempio del Manzoni mi avrebbe dovuto far moderare e chiarire».

Dichiarazione personale che ha anche un suo valore di poetica e visione estetica della sua critica, se si pensa che la sobrietà, e, piú alta, la misura è la mèta, per Momigliano, della grande poesia, tanto che, se egli poteva ben intuire, ben al di là della immagine crociana, l’energia, l’eroismo del carattere del Leopardi, nonché il suo fondo di pensiero, e con forti e assai interessanti e nuove poussées negli anni ’34-’35 in quella direzione anche nel rapporto con la poesia, la mèta rimaneva anche in relazione a quel poeta una superiore misura (e magari la suprema misurata confidenzialità del suo linguaggio nei canti pisano-recanatesi), accertando sí la diversa tendenza energica dei nuovi canti dopo il ’30 (né mancò in proposito il suo colloquio con me in occasione della mia tesina di terzo anno, nel ’34, sull’ultimo Leopardi, che conservo con le sue note), ma considerandola troppo eloquente o riflessiva e ormai al di là dei modi di quella che per lui era la grande poesia leopardiana, di cui egli pur aveva intuito tanti elementi non solo idillici.

Si badi bene, una misura alta, ma tutt’altro che uniforme ed olimpica, che fu per lui anche una sofferta conquista (nella sua valutazione della poesia e nella sua stessa cosí complessa personalità e nella sua stessa scrittura critica) di fronte a certa sua iniziale e a volte riaffiorante tendenza di accesi toni di tipo romantico, e che dunque anche in questa direzione induce a prospettare la figura e l’opera di Momigliano in uno sviluppo e non in una formula generale e sempre identica.

Mentre (per accennare anche ai fondamenti e al movimento della sua prospettiva di iter del suo concreto lavoro critico) si può ricordare – pur nei limiti della cronologia – come in un curriculum per un concorso universitario del ’14 egli illustrava già fin da allora il suo metodo di lavoro: «ho sempre (egli scriveva) proceduto dalla preparazione storica all’indagine psicologica ed all’apprezzamento estetico», e dichiarava un suo libero movimento entro il lato ambito dell’estetica crociana, cosí come altrove egli avrebbe rivendicato, in forme di continuità e di libertà, il suo appassionato rapporto con il De Sanctis «rivelatore perenne di poesia» e particolare esempio delle qualità critiche piú da lui apprezzate e difese in quella specie di misurata e multiforme battaglia che egli svolse soprattutto (accanto alla elaborazione della sua geniale e personalissima Storia della letteratura) nel prezioso volumetto Elzeviri dove riesaminava i suoi rapporti con la scuola storica da cui egli proveniva, la riconosceva nei suoi meriti storici, ma anche severamente la giudicava in quella che egli chiamava «insaziabile curiosità dei fatti che portava – e può portare – a dimenticare la poesia, l’arte, la personalità dell’artista», o prendeva posizione contro gli eccessi di nuove forme di contenutismo e biografismo, e viceversa del formulismo e problemismo, o anche dell’interpretazione musicalistica o sol figurativa (egli che fu pur cosí attento e spesso nuovamente attento – e con equivalenze spesso felici e congrue – ai rapporti fra la poesia e forme musicali e figurative), rifiutando costantemente ogni forma di critica ermetizzante, egli pur cosí sinuoso, ramificato, sfumato anche nel suo nitido ma complesso linguaggio, tutt’altro che facile e facilmente «chiaro», ma saldo sostenitore del dovere di una sostanziale comunicazione da parte del critico ai suoi lettori.

Cosí un esame attento che qui non è possibile realizzare dovrebbe indagare non solo gli aspetti della «cultura» di Momigliano nel senso di quella che egli aveva chiamato nel 1916 «preparazione storica generale e particolare» e della sua capacità di storicizzazione originalmente impostata e orientata ai fini della interpretazione critica, ma persino i suoi tanto discussi rapporti con la stessa «preparazione» filologica e con quella funzione della filologia di cui egli ben avvertiva la capacità di aiutare a comprendere piú capillarmente il farsi e il consistere dell’opera d’arte (e di cui, pur non esercitandola mai nelle forme di un’edizione critica, non disconobbe mai la fondamentale importanza e che in un certo modo egli pur utilizzò come strumento di intelligenza del processo elaborativo, come fece, ad esempio, studiando le quattro redazioni della Zanitonella o le redazioni dei Promessi Sposi rafforzando cosí una sua particolare e personale attenzione appunto allo sviluppo dell’opera d’arte). O si dovrebbero ben indagare le precise forme di esecuzione del suo lavoro, che culminano nell’interpretazione critica, ma che partono da una preparazione accuratissima e da un reticolo di osservazioni non solo di «gusto» e di «impressione»: lo sa chiunque abbia avuto il modo di leggere le fitte annotazioni di cui egli copriva il margine di ogni pagina dei volumi degli autori studiati e, a volte, anche di quelli non presi a soggetto di particolare studio.

Mentre si dovrebbe meglio indagare e comprendere anche quella forma di cultura che era per lui (cosí poco estroverso, vitalistico, avventuroso, ma anche cosí poco libresco e cosí diverso da certi critici o studiosi che sembrano aver conosciuto la vita e specie la vita dei sentimenti solo da quella degli autori studiati) l’esperienza personale della vita e soprattutto dei sentimenti, tante volte scoperta nella sua opera da spiragli, mai sovrapposti e sempre funzionali, entro quella sua caratteristica forma di collaborazione del critico con il suo autore sulla base di una esperienza genuina e vissuta, sicché come per il poeta nella sua operazione poetica anche per il critico nella sua operazione critica (per adoperare sue parole tanto citate) «confluisce tutto il suo spirito», e tale «integrale confluire», regolato e illuminato dalla fantasia del poeta o dalla percezione originale e poi dall’accertata interpretazione del critico, vale appunto particolarmente al centro e nell’economia e nello sviluppo dell’operatività critica di Momigliano.

Proprio sulla base della sua esperienza, della formazione e concretarsi della sua Weltanschauung, andrebbe minutamente seguito il formarsi e lo sviluppo della sua attività critica, cosí personale, e pur cosí attenta all’emergere di problematiche nuove, ma mai subordinata ad adeguamenti alle mode prevalenti, sino anzi al rischio consapevole di vere e proprie valutazioni contrastanti con l’opinio communis, per la difesa del proprio giudizio sostenuto anzitutto dalla sua personalissima persuasione.

Ma ad una ridefinizione di questo iter di formazione e sviluppo di Momigliano contribuiranno le relazioni del convegno rivedendolo attraverso le sue interpretazioni di opere, autori, interi secoli della nostra letteratura. Io lo tracciai con una certa larghezza nella mia commemorazione del ’60, pubblicata sia sulla «Rassegna», sia nel volume Critici e poeti dal Cinquecento al Novecento.

* * *

Da ciò che io venni affermando soprattutto nel finale di quella mia conferenza (e che già teneva debito conto delle nuove e varie forme dell’operare critico in quegli anni rispetto alle personali, precise, storiche forme della critica di Momigliano, in un contesto storico già allora cosí diverso da quello in cui egli si era svolto, e addirittura in certi casi con prospettive generali e specifiche personalmente diverse in cui convergevano altre esperienze ed istanze) l’ulteriore passaggio di quasi venticinque anni dalla data di quella conferenza (e quali anni! in tutti i campi della cultura e della storia e anche in quelli particolari della critica letteraria) non può non essere considerato rispetto alla concreta, storica configurazione della critica di quel grande maestro.

Né, ad esempio, la stessa mèta, in lui prevalente ma non livellante, della grande poesia potrebbe forse rimanere, per alcuni di noi o di critici piú giovani, quella della misura e della serenità che, ripeto, prevalentemente rimane la sua anche come fruizione personale: «la poesia è per me un rifugio: una sfera di serenità e di silenzio», come egli affermava in una sua assai nota lettera del ’34, indirizzata a me in risposta a un mio articolo di commosso commiato a nome della scolaresca pisana.

Anche se andrà ben chiarito ancora una volta che tale sua mèta di serenità, di silenzio, di misura superiore è ben lontana da una sua versione olimpica e uniforme, e presuppone comunque sempre un complesso e formidabile scavo e rilievo delle inquietudini, del dramma morale, del mondo segreto e fermentante delle grandi personalità e opere poetiche, dei moti piú intimi, dei traumi e delle ferite della coscienza degli scrittori e dei personaggi da loro creati, di cui si alimenta e arricchisce la loro suprema conquista artistica.

E basti, in proposito, proprio al culmine della maturazione della sua attività critica, rileggere la nota che il Momigliano appose nell’estremo suo capolavoro – il commento ai Promessi Sposi –: ad una pagina del romanzo eccezionalmente inquietante, pur nella sua suprema nitidezza (il finale della storia di Gertrude e il configurarsi del suo rimorso per la soppressione dell’imprudente conversa in una «forma», come scrive il Manzoni, «vana, terribile, impassibile», nel «sussurro instancabile» di una voce segreta che assediano la coscienza e la sensibilità di Gertrude) e ben comprendere il modo con cui quella identificazione di singolare profondità viene dal critico scoperta e accertata e sol cosí poi riportata nella sua consistenza artistica entro la forma suprema dell’arte manzoniana: «nel resto di questo capoverso la voce del Manzoni ha un suono che non ebbe mai: qui in una formidabile eccezione tocca il cerchio dei fantasmi che vengono su dalla coscienza turbata, ma senza nulla concedere ai giuochi della fantasia, proiettando quell’ombra ben definita sopra il solito nitido schermo».

E dunque par giusto ritenere che occorra ben valutare anzitutto l’opera di Momigliano nel suo grande significato reale e nel contesto storico in cui si svolse e già cosí inserí nella critica italiana una ingente forza di promozione operativa, con i suoi stimoli generali e l’incidenza eccezionale dei suoi contributi particolari, che suggeriscono del resto insieme concretamente tante precise possibilità di prosecuzione delle sue tematiche e forme di indagini inseribili in linee successive di sviluppo concreto o magari di esplicita teorizzazione.

Ma soprattutto, se egli considerò e chiamò il De Sanctis «rivelatore perenne di poesia» pur senza definirsi solo desanctisiano e senza direttamente inserirsi negli stessi vari espliciti ritorni al De Sanctis tanto frequenti e variamente importanti nell’epoca della sua maturità, cosí nel nostro tempo presente, e meglio nel tempo delle generazioni attualmente piú giovani e attive (tempo ricco di fermenti arricchiti dall’acquisto di nuove esperienze nell’arco del Novecento avanzato, e da un recupero di alcune ben valide esperienze di un primo Novecento non solo italiano nei tempi e nella cultura di Momigliano in gran parte ignorati, ma certo anche contraddistinto da una accelerazione estrema e vorace di prospettive variamente sostanziose e spesso di vere e proprie «mode» rapidamente trascorrenti), sarà lecito e senza forzature azzardate o indebite pur avvertire dell’opera di Momigliano (certo non solo nella sua e, con scelte non casuali e diverse, in quella di vari maestri della grande generazione di critici del primo Novecento, ma certo ben fortemente nella sua) un profondo stimolo generale che nasce entro la valutazione storica del significato di lui e della sua opera, e da quella si offre ancora a noi e a nuove generazioni di critici. Non certo io penso (fra i molti possibili modi di ricollegare centri e spunti del fertile, fermentante esempio di Momigliano a vari tipi di esperienze e prospettive critiche successive e recenti) ad un suo possibile stimolo a posizioni a cui sembra recentemente inclinare certo riemergere di una vera e propria avidità di poesia e di arte e della loro libera (e spesso edonistica) fruizione, per insofferenza e impazienza e sazietà (spesso assai frettolosa) rispetto a tanta ricerca di assoluta scientificità, a tanta rigidità metodologica e a vincolamenti sociologici e variamente storici, e a cui la profonda disponibilità di Momigliano alla poesia potrebbe anche apparire esemplare, ma certo con grave fraintendimento poiché nell’indagine della consistenza reale del suo fare critica è impossibile non rilevare non solo originali istanze e orientamenti metodologici, ma il fortissimo etimo morale, e cosí, a suo modo, storico nella sua concezione e valutazione della poesia, se addirittura egli poteva affermare che le rivoluzioni del gusto nascono da stati di profondo disagio morale e poteva drasticamente avvicinare e distinguere la grande poesia del Foscolo e quella, per lui ben interessante, ma tanto minore del Monti, facendo dell’uno la coscienza e dell’altro lo specchio della propria comune epoca. Penso piuttosto piú generalmente al suo invito piú intero a non perder mai di vista la centralità dell’oggetto della critica letteraria: appunto la letteratura, la poesia (in qualunque modo se ne strutturi e rafforzi la ricerca e la valutazione), a non sommergerla e perderla in sue utilizzazioni solo sostanzialmente documentaristiche, né a separarla nettamente da ciò che Momigliano sinteticamente chiamava «il confluire di tutto lo spirito» degli autori e del loro tempo nella loro poesia, se egli vedeva il rapporto e il ricambio tra poesia e problemi di un’epoca fino ad intitolare alcuni capitoli della sua Storia della letteratura l’età del Tasso, l’età dei Sepolcri, e dunque facendo di poeti e opere poetiche la voce profonda di un’intera epoca, né solo in campo letterario e di gusto, ma di costume morale e di valori.

E insieme nasce dalla sua opera uno stimolo potente e autorevole a far corrispondere alla persuasione della centralità della poesia nell’operazione critica la persuasione della serietà e della responsabilità della stessa critica, che egli sentí e attuò con tanto severa e nobile intensità, con tanta fedeltà e con tanta adesione a quella sua funzione nei confronti del testo e del suo autore (testo per lui mai «pretesto» e «testo di se stesso») che non rende mai arbitrario il suo discorso critico pur cosí scrittoriamente originale e inventivo. Proprio quella sua reale strenua difesa dei doveri e della figura del critico, quella sua assoluta sincerità, autenticità, schiettezza dell’esercizio critico promuovono ancora come una fortissima sollecitazione a quella responsabilità e funzione del critico, che ebbe in lui cosí alta ed esemplare realizzazione e per cui, ancor oggi, nel centenario della sua nascita e a un trentennio dalla sua scomparsa, noi, suoi allievi, lo consideriamo non solo essenziale elemento della nostra formazione e della nostra esperienza, ma ancora lo riteniamo grande maestro per quanti seriamente e consapevolmente operano in quello che fu il campo del suo profondo, geniale lavoro.